La Tuscia - l'alto Lazio etrusco - fu un tempo l'Arcadia di Roma. Qualche secolo fa le dimore della nobiltà papalina, i castelli delle dinastie cardinalizie, le ville e i giardini all'italiana delle grandi famiglie romane - gli Orsini, i Chigi, i Colonna, i Ruspoli, i Farnese - esportarono il Rinascimento e il Barocco tra i grifagni borghi medioevali accovacciati sui cocuzzoli di tufo.

Uscendo dai curvoni della via Cassia o dal fiume d'asfalto dell'A1, qualche scheggia di quel paesaggio e di quelle architetture si può ritrovare inaspettatamente ancora oggi: la fontana Papacqua di Palazzo Chigi a Soriano al Cimino è soltanto la prima avvisaglia di quel gusto tutto capitolino per l'ostentazione e l'esuberanza architettonica che disegnò il territorio tra Orte, Viterbo e il lago di Bolsena. Del passato più antico rimangono invece meno tracce, comprese tra le rovine del teatro romano di Ferento, poco più d'una fuga prospettica d'archi e colonne, e la lunare necropoli etrusca di Castel d'Asso, un canyon rossastro perduto nella campagna umida tra due ali di nicchie, antri e corridoi calcarei.

Le memorie etrusche riaffiorano però nelle forme dei paesi più antichi della Tuscia teverina. Aggrappato con mura e bastioni ad uno sperone roccioso a strapiombo sulla valle del Vezza, Vitorchiano è un ciclopico santuario di tufo dove, in un paesaggio urbano quasi fossile, l'architettura va in simbiosi con la geologia. Le forme irregolari delle case sbalzano dalla rupe in un prolungamento naturale della pietra; le facciate massicce si serrano e si fondono assieme, tanto da non poterle distinguere una dall'altra. I tetti spioventi sporgono appena oltre il perimetro dei muri di sostegno, le finestre minuscole s'incavano come buchi e i "profferli" - le grigie gradinate di pietra delle abitazioni - sono appena sbozzati in colori plumbei che sfumano dal grigio al nero, dal giallo all'ardesia. Più che costruito nei secoli, pietra su pietra, il paese pare scolpito in un giorno, modellato da un unico, gigantesco blocco di peperino vulcanico.


Bomarzo non è dissimile da Vitorchiano e da altri borghi della Tuscia. Ma nel burrone sottostante il paese, tra il mormorìo d'invisibili ruscelli, regnano il caos e il disordine del Bosco Sacro, il Parco dei Mostri immaginato da Pietro Francesco Orsini nel XVI° secolo in appendice al palazzo di famiglia. L'inquietante boschetto distrugge la geometrica razionalità botanica dei giardini all'italiana esibendo figure mostruose e mitologiche, maschere demoniache, creature antidiluviane e deliri grotteschi scolpiti nei massi lavici; il gusto manierista e la passione cinquecentesca per l'esotismo e l'Oriente esplodono preannunciando le provocazioni, le meraviglie, gli stupori del barocco. Ecco una casetta sbilenca che dà le vertigini a chi vi entra, un elefante infuriato che stringe nella proboscide un soldato caduto, una tartaruga colossale, un mostro dalle fauci spalancate; e ancora cani a tre teste, draghi che arricciano le spire combattendo con leoni, giganti e basilischi, pegasi e sfingi, chimere e sirene, Cerberi ed Ercoli, ninfe e divinità barbute di oltre quattro metri d'altezza. Le statue umide di muschio, assediate da ciuffi di ortiche, scalzate dalle radici che si insinuano nei sassi in un abbraccio tra pietra e pianta, tra mondo minerale e vegetale, avviluppate nell'intricata vegetazione spontanea, emergevano fino a qualche anno fa dai vapori umidi del sottobosco come dalle nebbie di una foresta tropicale. Oggi il parco è stato reso accessibile al pubblico, ma la magìa selvaggia del luogo è in parte compromessa dalle strutture di accoglienza turistica e dalle alterazioni sia botaniche che architettoniche.

Proseguendo a Nord verso Bagnoregio, il paesaggio muta fisionomia per l'ennesima volta. Tra il corso del Tevere e il lago di Bolsena i calanchi si aprono e si chiudono sprofondando in abissi taglienti, le crepe calcaree baluginano nelle rupi di tufo grigio. Civita è la più antica delle nove borgate che formavano l'abitato di Bognoregio. Sbriciolata dal tempo e dai terremoti ed evacuata da secoli dai suoi abitanti, si è a poco a poco allontanata dalla terraferma, sospinta da inarrestabili sommovimenti e smottamenti, fino a galleggiare nella valle dei calanchi come un'isola di pietra. Alle sue spalle si è spalancato un chilometro d'abisso, colmato da un brutto ponte in cemento armato che resta l'unico accesso possibile alla cittadina attraverso la porta di Santa Maria. Tutt'attorno, un paesaggio da preistoria, un immenso mare secco e selvaggio, un cratere bianco sgretolato da gole e fratture sulle cui pendici, a macchie, lampeggia il verde pallido dei vigneti e degli uliveti incolti. Le poche costruzioni superstiti addossate attorno alla cattedrale di San Donato - qualcuna trasformata in hotel di charme , altre di nuovo abitate, altre ancora vuote, in vendita o in affitto - illudono con la grazia dei balconcini e l'eleganza dei profferli fioriti tra archi e viuzze. Con le fondamenta conficcate come artigli nello scoglio che si sfarina giorno dopo giorno, Civita continua a prendere il largo nella valle sulla sua zattera di tufo rosicchiata dal Rio Chiaro e dal Rio Torbido, i due torrenti che si accaniscono sul calanco. Così la natura vulcanica e magmatica che freme sotto le colline di sapore toscano della Tuscia si prende la sua rivincita geologica.